Cooperazione e profit, teniamo gli occhi aperti

Mamme in fila per vaccinare i loro bambini in una maternità del nord del Mozambico
Mamme in fila per vaccinare i loro bambini in una maternità del nord del Mozambico

Abbiamo due notizie: una è che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha ricavato qualche giorno nella sua fittissima agenda, determinata anche dal semestre di presidenza UE, per andare in Africa – Mozambico, Angola e Congo Brazzaville – accompagnato dai rappresentanti di alcune grandi aziende italiane per rilanciare, attraverso nuovi accordi commerciali, la posizione dell’Italia nella politica e nell’economia internazionale. È il primo premier italiano, negli ultimi trent’anni, che fa un viaggio di questo genere. L’altra è che la riforma della legge sulla cooperazione è passata: manca la seconda lettura del Senato ma, dicono gli esponenti del mondo della cooperazione, «è fatta», e da ora in poi la cooperazione dovrebbe essere parte non solo integrante ma anche qualificante della politica estera italiana. Sono buone notizie, ma leggendole bene hanno dentro alcuni elementi che potrebbero trasformarle in notizie così così, se non addirittura pessime.

Rilancio dell’economia italiana, ma non a qualunque costo

L’Italia ha bisogno di energia e di vendere i propri prodotti, non c’è dubbio e non c’è niente di male, oltretutto. Che un governo si attivi perché questo succeda non può che rallegrare. Ma il come e il con chi sono importanti.
Tutti conosciamo le responsabilità del cane a sei zampe nel provocare pesanti danni ambientali e umani in Nigeria. Da qualche settimana, abbiamo anche notizie non proprio confortanti sul suo amministratore delegato. Renzi è andato a concludere accordi in tre paesi africani insieme e, dicono i maligni, per conto di Eni, Confindustria, Assominerali, Saipem, Iveco, Sace, il gruppo Cremonini e Federalberghi e, in Angola, anche dell’industria degli armamenti italiana che fornirà armi al gigante lusofono per la sua difesa. Se l’Eni distrugge l’ambiente e corrompe, rafforzandole economicamente, le élites nei paesi africani in cui lavora, se l’Africa si riempie di prodotti italiani (industriali, non certo delle eccellenze prodotte dagli artigiani) comprese le armi, l’Italia porta a casa energia e le nostre (grandi) aziende lavorano, benissimo. Poi però non c’è da stupirsi se il Mediterraneo si riempie di barconi di disperati che scappano da terre dove l’acqua è imbevibile perché mista a petrolio o da paesi dove le armi vengono usate non solo per difendere i confini ma anche per soffocare sistematicamente l’opposizione politica.

Matteo Renzi ricevuto dal presidente del Mozambico Armando Guebuza (fonte:https://www.flickr.com/photos/palazzochigi/)

La cooperazione apre al profit

E la cooperazione allo sviluppo che c’entra? Per ora non è chiaro, ma può entrarci. Ed essere determinante, anche. O deleteria. La riforma contiene un’apertura senza precedenti al settore profit, che viene ora riconosciuto come uno degli attori che può dare un apporto ai processi di sviluppo dei paesi partner, ovvero, detto più facile: le imprese e gli istituti bancari, e non solo le associazioni, le onlus, le ong e le cooperative sociali, possono partecipare anche loro a tutte quelle attività che l’Italia fa per sostenere lo sviluppo dei paesi del sud del mondo. Partecipare come? Sarà il regolamento attuativo della legge a provare a dare una risposta, ma l’ipotesi è che le imprese possano costruire un ospedale, una scuola, un pozzo o avviare un’azienda mista ad esempio in Angola, in Colombia, in Cambogia, mettendoci una parte di soldi loro e ricevendone un’altra parte dal ministero degli esteri, dall’UE, dall’ONU, magari anche collaborando con le associazioni no-profit. Anche questo, sulla carta, suona bene, tanto più che è l’Europa che ce lo chiede nella sua Comunicazione in cui fa presente che è il settore profit che occupa il novanta per cento dei lavoratori nei cosiddetti paesi in via di sviluppo e quindi la lotta alla povertà, di cui la cooperazione è uno strumento, deve per forza passare di lì.

Un momento dell’incontro sulla riforma della cooperazione alla sala Mercede, Camera dei Deputati, 22 luglio 2014

La cooperazione controlla il profit o il profit influenza la cooperazione?

Il punto è come tutto questo passerà dalla carta alla realtà. Il punto è capire chi è il gatto e chi il topo. Se questa riforma della cooperazione è una cosa seria, le aziende faranno affari nel sud del mondo, come sempre, ma saranno vincolate a comportarsi bene, innanzitutto mostrando responsabilità sociale e poi collaborando, con le loro risorse e con le loro competenze, allo sradicamento della povertà dei paesi dove operano. E saranno vincolate perché la legge sulla cooperazione dice che l’Italia si adopera per garantire che le proprie politiche siano coerenti con le finalità e i principi della legge stessa, cioè sradicamento della povertà, riduzione delle diseguaglianze, diritti umani, dignità dell’individuo, prevenzione del conflitto. Tutte le politiche, comprese quelle commerciali, migratorie, energetiche. Se questa riforma è una cosa seria, quindi, l’Italia – e chi la guida – non solo dovrà vegliare sul rispetto di questi principi ma anche sanzionare chi non li rispetta. Questo sarebbe lo scenario in cui il governo è il gatto, che ha aperto al settore profit le porte della cooperazione per poter meglio controllare che, ad esempio, un colosso dell’energia non guasti in cinque minuti quello che missionari, ong, società civile italiani e locali hanno costruito in anni.
Ma c’è pure lo scenario in cui il governo è il topo. E l’entrata ufficiale delle imprese nella cooperazione serve per permettere loro di farsi una bella doccia con l’acqua pulita della solidarietà e il sapone profumato dell’ambientalismo. Charity-washing e greenwashing, dicono gli inglesi: serve per cambiare l’immagine, non la sostanza.

Questione di credibilità

Se il governo di Matteo Renzi vuole essere credibile, dovrebbe far seguire al viaggio africano una serie di accordi con i nostri colossi industriali che li vincolino al rispetto dei paesi in cui operano. Dovrebbe cioè dimostrare che al di là di ogni ragionevole dubbio che la natura ora definita “qualificante” della cooperazione nella politica estera italiana non sia già stata squalificata ai blocchi di partenza.
In che modo può dimostrare questo? Innanzitutto con una più stretta applicazione delle norme nazionali (D. Lgs. 231/01) ed internazionali (applicazione delle linee guida UNI ISO 26000 ed SA8000) alle imprese che intendono aderire ad accordi commerciali con i PVS. E soprattutto con la trasparenza, rendendo conoscibili a tutti i termini contrattuali delle grandi imprese che esportano prodotti all’Estero e che importano energia e materie prime. Perché la trasparenza è il miglior antidoto contro la corruzione.

Bambini giocano nel cortile di una missione della Consolata nel nord del Mozambico