La Cina in Africa /2 – Miti e poca trasparenza

Nel numero di ottobre abbiamo raccontato il rapporto fra Cina a Africa concentrandoci su investimenti e commercio. In questo numero parliamo invece dei tentativi di quantificare i cosiddetti flussi ufficiali e in particolare l’aiuto pubblico allo sviluppo cinese e di sfatare, o almeno ridimensionare, alcuni miti sul rapporto sino-africano.
da Missioni Consolata di gennaio – febbraio 2018 – web classico ∆∆∆ pdf sfogliabile ◊◊◊

Xinhua/Chen Yehua

Quanto dà la Cina all’Africa in aiuto allo sviluppo? Misurare questa grandezza è estremamente complicato. Prima difficoltà: la Repubblica Popolare Cinese non presenta una relazione annuale all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) su questo tipo di flussi – come fanno invece trenta paesi membri dell’organizzazione e alcune economie emergenti, come la Russia, la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti – e non pubblica i dati se non in modo irregolare.

Seconda difficoltà: non è chiaro quanto di ciò che la Cina etichetta come aiuto allo sviluppo corrisponda alla definizione dello stesso applicata dall’Ocse. La ricordiamo: per l’Ocse, costituiscono aiuto pubblico allo sviluppo quei flussi provenienti dagli enti pubblici (dei paesi donatori) che hanno a) lo sviluppo economico e il benessere dei paesi in via di sviluppo come principale obiettivo, b) presentano carattere agevolato e c) comprendono una componente di dono di almeno il 25 per cento.

Date le due difficoltà dette sopra è impossibile fare un confronto diretto fra l’aiuto dei paesi Ocse e quello cinese. È per questo che alcuni centri di ricerca hanno messo a punto metodi molto complessi per raccogliere le informazioni sull’Aps cinese e renderle confrontabili con i dati Ocse.

La difficile raccolta dei dati

Uno di questi centri è Aiddata, laboratorio di ricerca del College di William e Mary, università pubblica statunitense con sede a Williamsburg, Virginia. Incrociando le informazioni disponibili nei documenti e nelle banche dati resi pubblici da Pechino, nei siti delle ambasciate cinesi, nei documenti ufficiali dei paesi riceventi e in articoli giornalistici, accademici e delle organizzazioni non governative, Aiddata ha quantificato in poco più di 30 miliardi di dollari l’aiuto pubblico allo sviluppo che la Cina ha fornito all’Africa fra il 2000 e il 2013.

Nello stesso periodo, stando ai dati Ocse, l’Aps statunitense è stato quasi tre volte tanto. I paesi europei hanno speso in aiuto allo sviluppo due volte e mezzo quel che ha speso Washington e il dato mondiale assomma a 533 miliardi. Questo significa che la Cina ha fornito circa il sei per cento dell’aiuto allo sviluppo complessivo, gli Usa intorno al quindici e un terzo la sola Unione Europea.

AFP PHOTO / HABIB KOUYATE

L’ordine di grandezza dei volumi individuati da Aiddata sull’aiuto cinese si discosta di molto da un precedente studio della Rand Corporation, secondo il quale nel solo anno 2011 l’aiuto cinese verso l’Africa sarebbe ammontato a 189,3 miliardi. Il motivo? Lo spiega Deborah Brautigam direttrice del China Africa Research Initiative – Cari – della Johns Hopkins University in un articolo del dicembre 2015 su Foreign Policy: lo studio ha preso in considerazione gli impegni che la Cina ha preso, non i flussi reali.

Di questi impegni – di solito sotto forma di accordi e memorandum di intesa – solo una minima parte si concretizza. Informazioni come queste, lamenta la studiosa statunitense, una volta diffuse continuano a circolare e ad essere riprese dai media, nonostante le smentite o le verifiche che ne mostrano l’inesattezza, alimentando così il mito per cui la presenza cinese nel continente è enorme e supera quella delle altre potenze mondiali, sia negli investimenti che nell’aiuto allo sviluppo.

Eppure per rendersi conto dell’errore della Rand basterebbe pensare che il totale globale dell’aiuto calcolato dall’Ocse per il 2016 è stato di circa 143 miliardi e chiedersi com’è possibile che la Cina abbia, cinque anni fa, superato da sola l’intero pianeta.

Miti e fatti
Brautigam individua altri quattro «miti sull’impegno cinese in Africa che la stampa ricicla con costanza».

Il primo mito
La Cina sta in Africa solo per estrarre risorse naturali. Che queste ultime attraggano molto la Cina non è in dubbio, precisa la ricercatrice, così come attraggono i giganti occidentali del petrolio e dell’attività mineraria come Shell, ExxonMobil e Glencore. Ma dire che la presenza della Cina ha questo come unico obiettivo è fuorviante. A confutazione di questa tesi Brautigam cita i 70 miliardi di dollari di contratti nel settore delle costruzioni che le compagnie cinesi hanno siglato con i paesi africani nel solo 2014 e la scuola di formazione aperta dal colosso cinese delle telecomunicazioni Huawei ad Abuja, capitale della Nigeria, per formare ingegneri locali. Le elaborazioni Aiddata dei volumi fra il 2000 e il 2014 confermano questa lettura: sul totale di 354 miliardi di dollari di flussi cinesi diretti in Africa, a concentrarsi su attività minerarie, di costruzione e industriali sono stati 30 miliardi, l’8%. Al primo posto si trova la produzione e fornitura di energia, con 134 miliardi (38%) e, a seguire, le attività di trasporto e di stoccaggio, con 89 miliardi, un quarto del totale.

Il secondo mito
Forza lavoro: le compagnie cinesi impiegherebbero soprattutto cittadini cinesi. È vero, riconosce la direttrice del Cari, che in alcuni paesi – ad esempio l’Algeria, la Guinea Equatoriale e l’Angola – i governi permettono a Pechino di inviare i propri lavoratori. Ma nel resto del continente il dato è opposto: la ricerca effettuata da due studiosi di Hong Kong su 400 aziende cinesi attive in 40 paesi africani mostra che, se la dirigenza è prevalentemente cinese, l’80 per cento dei lavoratori è invece locale. Conclusioni simili a quelle raggiunte dallo studio di McKinsey pubblicato la scorsa estate: nelle oltre mille aziende cinesi prese in esame il personale locale era l’89%, pari a circa 300 mila persone. E, suggeriva McKinsey, proiettando il risultato sulle complessive 10 mila imprese cinesi in Africa, è lecito ipotizzare che gli africani impiegati dalle aziende di Pechino siano ormai quantificabili in milioni. I contenziosi sul posto di lavoro sono indubbiamente presenti, conclude Brautigam, ma riguardano le condizioni salariali e lavorative, non il fatto che il lavoro venga negato ai locali.

Aiuti in cambio di minerali e land grabbing?

Il terzo mito
Il governo cinese baratta l’aiuto allo sviluppo con concessioni minerarie e petrolifere. Uno studio del 2015 effettuato dal gruppo di ricercatori di Aiddata, sostiene la studiosa della Johns Hopkins, raggiunge le conclusioni molto diverse: a determinare i flussi di Aps di Pechino verso l’Africa sarebbero piuttosto le scelte di politica estera – ad esempio l’allineamento dei paesi africani alle posizioni cinesi quando si tratta di votare all’Assemblea Generale Onu e l’adesione dei paesi riceventi alla linea politica «una sola Cina», che nega a Taiwan il diritto di ritenersi uno stato separato dalla Repubblica Popolare Cinese.
«Il nostro studio», dicono gli accademici del gruppo di Aiddata, «non conferma le critiche alla Cina per cui il suo Aps sarebbe prevalentemente motivato dall’interesse per l’acquisizione di risorse naturali. I flussi di aiuti cinesi sono fortemente orientati ai paesi più poveri, e questo mostra che Pechino fa anche considerazioni di carattere umanitario quando decide le allocazioni di aiuto allo sviluppo. Nel complesso, i risultati dell’analisi suggeriscono che la prassi cinese nell’attribuzione dei fondi non è dissimile da quella dei donatori occidentali».

Un ultimo mito
L’insaziabile appetito cinese per le terre africane e un presunto piano per inviare contadini dalla Cina in Africa a coltivare prodotti agricoli da spedire poi a casa. Esisterebbero, secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, interi villaggi di agricoltori cinesi.

«Il mio team e io abbiamo esaminato 60 casi di investimenti cinesi passando tre anni a fare ricerca sul campo e interviste in oltre dodici paesi africani: su circa 15 milioni di acri di terra riportati come acquisiti da compagnie cinesi abbiamo trovato prove di tali acquisizioni per meno di 700 mila acri». Le aziende agricole cinesi più grandi individuate dal team Cari erano piantagioni di gomma, zucchero e agave e nessuna esportava cibo verso la Cina. E, conclude Brautigam, se è vero che paesi come lo Zambia ospitano oggi svariate decine di imprenditori cinesi che coltivano e allevano polli, non abbiamo trovato nessun villaggio di contadini cinesi.

Kenya, strada da Isiolo a Moyale in costruzione

Cina «donatore canaglia»?

Un’ulteriore critica frequentemente mossa alla Cina è quella che la vede come un rogue donor, un donatore canaglia, che usa l’aiuto pubblico per finanziare progetti scadenti e privi di reale impatto, il cui ulteriore effetto è quello di minare i benefici, per i paesi riceventi, dell’aiuto fornito da altri donatori come gli Usa. Il più recente (ottobre 2017) rapporto di Aiddata smentisce questa lettura: dall’analisi dei dati raccolti dai ricercatori emerge che per ogni progetto di sviluppo finanziato dalla Cina, il paese beneficiario sperimenta un aumento del Pil pari allo 0,7 per cento nei due anni successivi al finanziamento, in linea con i valori relativi all’aiuto dei paesi Ocse-Dac.

Tutto bene, quindi?
No, ovviamente. Questi pur ambiziosi tentativi di tracciare i flussi cinesi da parte di prestigiose istituzioni accademiche sono stati avviati solo molto di recente e stanno ancora perfezionandosi, per cui non c’è certezza che le conclusioni raggiunte siano del tutto corrette. L’analisi si ferma al 2014, e ancora poco o nulla è in grado di dire sugli ultimi tre anni.

Inoltre, il fatto che la Cina non renda pubblici i dati rende molto più complicato coordinare gli interventi di aiuto allo sviluppo. Resta poi vero il fatto che, a livello globale – non solo rispetto all’Africa – i flussi ufficiali americani fra il 2000 e il 2014 sono stati al 90 per cento Aps mentre l’aiuto pubblico cinese si è limitato a un quarto del complessivo impegno economico di Pechino nella cooperazione allo sviluppo planetaria, con il 60% delle risorse dedicate invece a scopi più prettamente commerciali e il rimanente 16% costituito da flussi dei quali non è chiaro se siano aiuto o meno. Infine, le testimonianze su comportamenti poco corretti da parte dei cinesi non sono rare: il rapporto McKinsey citava ad esempio il caso kenyano (studiato da Cari), dove il confronto fra imprese cinesi e statunitensi mostrava come non tutti i dipendenti africani delle prime avessero un contratto, mentre i dipendenti delle aziende Usa fossero tutti assunti regolarmente. O il caso dei lavoratori zambiani che lavorano nelle miniere di rame in condizioni inumane: scarsa ventilazione che può provocare patologie a carico dell’apparato respiratorio, orari di lavoro eccessivamente lunghi, attrezzatura antinfortunistica non rinnovata, minacce ai pompieri che si rifiutano di intervenire in condizioni di sicurezza non adeguate.

È dello scorso novembre un articolo su Allafrica che racconta delle gravi difficoltà di diverse giovani donne costrette a crescere da sole i figli avuti dalle relazioni con gli operai cinesi della Sinohydro Construction Company che sta costruendo la diga di Karuma, in Uganda. I lavoratori hanno abbandonato le compagne dopo aver promesso loro di sposarle e portarle in Cina. Ma il punto non è tracciare una linea sulla lavagna e segnare da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Certo, non è ancora da escludere che, un giorno, l’Africa si troverà invasa dai cinesi; ma quel giorno non è oggi. Il punto, nelle parole di Debora Brautigam, è che la diffusione dei miti e delle informazioni scorrette rende più difficile concentrarsi sui reali problemi che la presenza cinese in Africa comporta, come quelli descritti sopra. Ad essi vanno poi aggiunti la poca trasparenza sulle risorse, la mancata certificazione di sostenibilità di prodotti come il legname, il disinteresse per la protezione dell’ambiente. «Andare oltre la mitologia renderà forse meno elettrizzanti i contenuti dei media, ma aiuterà a creare una base più informata per il coinvolgimento occidentale nei rapporti con la Cina, in Africa come altrove».