Nei panni degli altri: la moda insostenibile

L’industria dell’abbigliamento è ormai da anni al centro di un dibattito dai toni a volte anche aspri, sia per il suo impatto ambientale che per alcuni tragici incidenti sul lavoro, specialmente nel Sud del mondo. Diversi grandi marchi hanno iniziato a mostrare più sensibilità verso questi problemi, ma la mancanza di dati certi sul reale impatto economico e ambientale della moda non aiuta a formulare strategie adeguate, e il rischio di greenwashing è alto. Da Missioni Consolata di marzo 2022 – web classico ∆∆∆ PDF sfogliabile ◊◊

Vestiti usati nel deserto di Atacama, Alto Hospicio, Iquique, Cile. (Photo by MARTIN BERNETTI / AFP)

«Ci sono ovunque indizi evidenti che qualcosa non va, dai fiumi velenosi del Bangladesh e dell’Indonesia ai vecchi vestiti gettati sulle coste dell’Africa orientale alle microplastiche nella nostra acqua potabile. Ma finché disponiamo solo di informazioni spazzatura, otterremo solo azioni spazzatura da marchi e governi per risolvere il problema». Alden Wicker, giornalista statunitense fondatrice del blog Ecocult e collaboratrice di diverse testate come il New York Times, Vogue e Wired, riassume così il problema della mancanza di dati certi sull’impatto negativo del settore dell’abbigliamento sull’ambiente e sulle persone.

Sono circolati per anni dati falsi o mai verificati, eppure ripresi anche da fonti ufficiali come le Nazioni Unite o la Banca Mondiale. Che la moda inquini è fuori di dubbio, spiega Wicker, ma sapere quanto e come inquini fa la differenza quando si tratta di decidere come intervenire per limitare i danni.

I dati più riportati benché non sostenuti da prove, a detta della giornalista americana, sono quelli secondo cui la moda sarebbe la seconda industria più inquinante del pianeta, dopo quella del petrolio, e causerebbe il 10% delle emissioni, più del trasporto aereo e marittimo sommati.

Anche la pagina ufficiale dell’Alleanza delle Nazioni Unite per la moda sostenibile riporta dati che Wicker reputa tutti da verificare: l’industria dell’abbigliamento e dei prodotti tessili contribuirebbe alla produzione globale per 2.400 miliardi di dollari, impiegherebbe –  considerando tutta la catena del valore – 300 milioni di persone di cui molte donne, sarebbe responsabile del 2-8% delle emissioni di gas serra del pianeta e del 9% delle microplastiche disperse nell’oceano e consumerebbe 215mila miliardi di litri di acqua all’anno.

Kibera, Nairobi, vendita di vestiti usati

Dati meno clamorosi ma più attendibili

Un valore fra 2.250 e 2.500 miliardi di dollari quanto al giro d’affari sembra mettere d’accordo diverse fonti. Per agli altri dati, lo scorso gennaio Wicker ha cercato sul suo blog di fornire almeno un’analisi della credibilità delle diverse stime che collocano il contributo alle emissioni globali del comparto moda nell’intervallo fra il 2% e l’8% riportato dalle Nazioni Unite. Con tutte le cautele del caso, la giornalista descrive il rapporto del 2017 Pulse of the fashion industry prodotto dai consulenti del Boston consulting group (Bcg) in collaborazione con il forum danese Global fashion agenda come la più approfondita analisi realizzata finora, nella quale la quota di emissioni generate da questo settore sono quantificate nel 4,8% per l’anno 2015.

Quanto all’acqua, lo stesso rapporto parla di 79 miliardi di metri cubi consumati, l’equivalente di 32 milioni di piscine olimpioniche, dato ripreso anche dal Servizio di ricerca del Parlamento europeo, che aggiunge un’ulteriore informazione: per produrre una T-shirt occorrono 2.700 litri d’acqua potabile, quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno di una persona per due anni e mezzo. Settantanove miliardi di metri cubi è una quantità enorme, spiega Wicker, più di quella usata per produrre elettricità, ma è lo 0,87% dei 9.087 miliardi di metri cubi usati complessivamente ogni anno, non il 20% come alcune fonti riportano.

L’idea che la moda sarebbe la più inquinante industria dopo il petrolio, chiarisce inoltre Wicker, viene invece dall’improprio utilizzo di un’affermazione di una studiosa, Linda Greer, riferita peraltro all’inquinamento dell’acqua – e non dell’ambiente nel suo complesso – in una specifica provincia della Cina sulla quale stava effettuando degli studi. In quella zona, aveva rilevato Greer, la seconda industria che inquina di più l’acqua dopo l’industria chimica (e non quella petrolifera) era in effetti quella dell’abbigliamento. Questa sua affermazione circoscritta è stata poi generalizzata, ed è rimbalzata sui media senza mai essere controllata da chi la ripubblicava.

Nella Cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che si è svolta lo scorso autunno a Glasgow, «nessuno ha menzionato la falsa statistica, ora screditata, ma un tempo molto diffusa, che “la moda è la seconda industria più inquinante del pianeta”. Tutti hanno finalmente concordato che è una delle peggiori, e questo è già abbastanza grave», scriveva a novembre 2021 la giornalista della sezione moda del New York Times, Vanessa Friedman.

I problemi reali

Sempre secondo il report Pulse of the fashion industry 2017, è da attribuire all’industria dell’abbigliamento la produzione di 92 milioni di tonellate di rifiuti solidi all’anno, pari al 4% del totale mondiale. Secondo le proiezioni del rapporto, le tonnellate di tessili che elimineremo saranno 148 milioni l’anno nel 2030: ogni secondo, stima la Ellen MacArthur foundation, un camion di spazzatura pieno di vestiti finisce in una discarica.

Come spiegava Wicker su Newsweek nel 2016, le fibre sintetiche sono derivati dei combustibili fossili e hanno tempi di decadimento di centinaia, se non migliaia di anni.

Kibera, Nairobi, inquinamento da vestiti buttati

Quanto invece alle fibre naturali come cotone, lino e seta, o semi-sintetiche create da cellulosa di origine vegetale, come rayon, tencel e modal, una volta gettate in una discarica si degradano ma producendo metano. Non possono essere compostate perché, per diventare indumenti, vengono sbiancate, tinte, stampate, e le sostanze chimiche impiegate in questi processi possono poi passare dal tessuto alle falde acquifere o, in caso di incenerimento, trasformarsi in fumi tossici liberati nell’aria.

Nel gennaio 2022, Lucia Capuzzi raccontava su Avvenire della enorme discarica illegale nel deserto di Atacama, in Cile, e di come la vicina cittadina di Alto Hospicio venga ciclicamente investita dai fumi tossici degli abiti che vengono inceneriti per ridurne la quantità, ormai fuori controllo.

Il fast fashion contribuisce molto a generare questi rifiuti perché funziona esattamente secondo la logica dell’usare e buttare rapidamente un indumento. Good On You, un sito che valuta i marchi della moda sulla base della loro eticità e sostenibilità e che ha una app per aiutare i consumatori a scegliere i marchi etici, definisce il fast fashion come «abbigliamento economico e alla moda che cattura idee osservando le passerelle delle sfilate o le celebrità e le trasforma a una velocità vertiginosa in capi da vendere nei negozi delle vie dello shopping per soddisfare la domanda dei consumatori». Questi ultimi vengono messi in condizione di acquistare i capi ancora all’apice della loro popolarità per poi scartarli dopo averli usati una manciata di volte.

Le condizioni dei lavoratori

Oltre a contribuire all’aumento dei rifiuti, il modello del fast fashion riceve pesanti critiche anche dalle organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori. L’incidente che, secondo diversi osservatori, segna su questo tema uno spartiacque nella consapevolezza da parte dell’opinione pubblica sulle condizioni di lavoro nel settore tessile è quello del Rana Plaza, una fabbrica nella periferia della capitale del Bangladesh, Dhaka, che crollò nell’aprile del 2013 uccidendo 1.132 persone e ferendone altre 2.600, diverse delle quali hanno subito amputazioni e riportato danni permanenti.

Si è trattato di una tragedia annunciata, commentano Shams Rahman e Aswini Yadlapalli della Rmit University in un articolo del 2021 su The Conversation: «Il giorno prima erano state scoperte crepe strutturali nell’edificio. Le attività ai piani inferiori (negozi e banca) avevano chiuso immediatamente mentre le cinque fabbriche di abbigliamento ai piani superiori facevano continuare a lavorare i loro operai. La mattina del 24 aprile 2013 ci fu un’interruzione di corrente e i generatori diesel in cima all’edificio vennero accesi. Poi l’edificio crollò».

La fabbrica produceva vestiti per diverse catene internazionali fra cui, riporta la pagina della campagna Clean Clothes, Mango, El Corte Inglés e Benetton. Alcune di queste catene, come Benetton, Auchan, Primark, hanno pagato compensazioni, ma non tutte hanno reso noto l’ammontare.

Jeans di moda, Italia, Torino

A otto anni dal disastro, sottolineavano Rahman e Yadlapalli su The Conversation, qualcosa è migliorato, ma non abbastanza: nelle interviste realizzate dai due studiosi, il rivenditore australiano interpellato affermava di acquistare indumenti solo dai produttori che garantivano ai lavoratori condizioni conformi all’accordo sulla sicurezza antincendio degli edifici in Bangladesh, firmato un mese dopo il crollo del Rana Plaza. I produttori bengalesi hanno però rivelato che i controlli di conformità sono spesso «una farsa», dal momento che la limitazione delle ore di straordinario del lavoratore e la presenza di un’infermiera e di un assistente all’infanzia nella struttura duravano solo per il giorno dell’audit.

Gli sforzi che si fanno

Ci sono diverse fonti per orientare i propri acquisti monitorando gli sforzi che fanno le grandi aziende per rendersi più sostenibili. Una di queste è il già citato sito Good On You, che ha un sistema di valutazione delle aziende basato su oltre 500 indicatori relativi a 60 aspetti potenzialmente problematici che riguardano l’ambiente, le condizioni di lavoro e il trattamento degli animali. I punteggi vanno da 1 (evitiamo) a 5 (ottimo), passando per buono (4), è un inizio (3) e non abbastanza buono (2).

Vi è poi il rapporto annuale Fashion transparency index di Fashion revolution, una piattaforma nata dopo il disastro del Rana Plaza e composta da accademici, addetti ai lavori del comparto moda, rappresentanti dei lavoratori e comuni cittadini. È finanziata per le attività principali dalla Laudes foundation, «lanciata nel 2020, […] per sfidare e ispirare l’industria a sfruttare il suo potere per il bene. Come parte dell’impresa familiare Brenninkmeijer, ci basiamo su sei generazioni di imprenditorialità e filantropia e siamo al fianco delle imprese Cofra e delle altre attività filantropiche private della famiglia».

Il rapporto analizza e classifica 250 marchi e rivenditori «in base alle informazioni che divulgano sulle loro politiche, sulle pratiche e impatti sociali e ambientali, nelle loro operazioni e nella catena di approvvigionamento». Il gruppo Cofra include il marchio di prodotti di abbigliamento C&A, che nel rapporto del 2021 rientrava nelle prime dieci aziende più virtuose, mentre Good On You attribuisce a C&A una valutazione di 3 (è un inizio).

Tuxla Gutierrez, Mexico, buxato steso ad asciugare

Un caso virtuoso

Vi sono infine alcune esperienze di rigenerazione avviate da aziende che hanno nella moda sostenibile uno dei loro obiettivi primari, come nel caso di Rifò, un laboratorio di Prato. La rigenerazione, ha spiegato nel podcast Il mondo alla radio di Vatican News il fondatore di Rifò Niccolò Cipriani, è propria del distretto tessile di Prato, dove da cento anni arrivano scarti industriali soprattutto di lana e cachemire che vengono selezionati per colore e qualità, sfilacciati, riportati allo stato di fibra e poi cardati.

L’idea di Rifò, racconta Cipriani, è nata da una sua esperienza come cooperante in Vietnam, che è uno dei principali centri manifatturieri del pianeta nell’ambito tessile: lì si è reso conto che l’industria dell’abbigliamento ha un problema di sovrapproduzione, al quale si aggiunge un parallelo problema di sovraconsumo, per cui le persone comprano di più di quello di cui hanno bisogno e le aziende producono più di quanto le persone comprano.

Rifò utilizza il 92% di fibre rigenerate di cachemire, cotone, jeans e poliestere e offre un servizio di raccolta di vestiti usati in cambio dei quali l’utente riceve buoni per effettuare acquisti sul sito. Un aspetto importante, racconta Cipriani, è quello della valutazione dell’impatto ambientale dei processi di riciclo, che non sempre sono sostenibili. Nel caso della rigenerazione delle fibre usate da Rifò si tratta di un processo meccanico, che richiede poca acqua e nel quale spesso non avviene la ritintura delle fibre con tutto il relativo impiego di prodotti inquinanti necessari per la colorazione. Altro punto chiave è quello della prevendita: Rifò produce solo ciò che viene ordinato, preferendo offrire uno sconto prima di produrre in cambio del tempo di attesa richiesto ai clienti per poter realizzare il prodotto, piuttosto che produrre in eccesso e fare poi i saldi.