Con 251 voti favorevoli la Camera ha approvato il 17 luglio la riforma delle legge 49/87 che regola la cooperazione allo sviluppo italiana. Dopo oltre dieci anni di dibattito la cooperazione camminerà su quattro nuove “gambe”, come le ha definite mercoledì scorso Emilio Ciarlo, consigliere del vice ministro Lapo Pistelli, a un seminario presso la Pontificia Università Lateranense.
Le prime due gambe, quelle politiche, riguardano innanzitutto la definizione della cooperazione non solo come parte integrante bensì qualificante della politica estera italiana: la cooperazione internazionale entra nel nome del ministero (MAECI), disporrà di un vice ministro – figura inedita nel panorama istituzionale italiano – e avrà fra gli obiettivi lo sradicamento della povertà. La seconda gamba politica sarà poi la creazione del Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo (CICS), uno strumento pensato per garantire la coerenza delle politiche nazionali in modo che, ad esempio, non si tolga con una mano (delle politiche economiche o migratorie) quello che si è dato con l’altra (quella appunto della cooperazione).
Quanto alle gambe operative, la prima riguarda la creazione dell’Agenzia per la cooperazione, che sulla carta dovrebbe permettere di superare le rigidità e i ritardi della Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (DGCS), la parte del ministero degli esteri che finora ha gestito la cooperazione.
Inoltre, e siamo alla seconda gamba operativa, è passata la proposta di utilizzare la Cassa depositi e prestiti – società finanziaria partecipata all’80% dal ministero dell’Economia e delle Finanze – come aggregatore delle risorse per la cooperazione in modo, spiega Ciarlo, da poter intercettare ad esempio i fondi europei, ora monopolizzati da Francia e Germania, grazie a un ente finanziario in grado di fare da interlocutore valido e chiaramente identificabile per l’UE.
Fin qui la lettera della riforma. Quanto alla sostanza, sebbene si respiri in questi giorni un’aria di soddisfazione diffusa per il risultato legislativo, rimangono alcune perplessità rispetto alla applicazione della nuova legge. Innanzitutto molti si chiedono che cosa garantirà che Agenzia e Direzione generale per la cooperazione non finiscano per sovrapporsi o duplicare funzioni e procedure. Ma a farla da padrone almeno negli eventi romani è il dibattito sul ruolo del settore privato che si sta profilando come un attore sempre più attivo della cooperazione e al quale la riforma stessa, recependo una raccomandazione della commissione europea, ha aperto la porta in modo deciso. La cooperazione diventa cioè viola, purple, dall’unione dei colori rosso (quello del dono e dell’aiuto sui bisogni di base) e blu, il colore del settore privato e del business. Blending, mescolanza, è un po’ la parola chiave dei seminari e degli incontri degli ultimi mesi e il confronto sulla definizione di questo rapporto fra settore profit e cooperazione si sta rivelando quantomeno interessante. Ma, sembra essere il punto di vista di diversi addetti ai lavori, riuscire a rendere la cooperazione un terreno nel quale la responsabilità sociale d’impresa vada davvero a braccetto col profitto e, soprattutto, uno spazio trasparente di partecipazione per tutto il settore privato italiano, è tutt’altro che scontato.