Circa un miliardo di persone nel mondo soffre di disturbi di salute mentale o derivanti dall’uso di alcol e droghe. Eppure, solo una persona su quattro ha la possibilità di accedere a trattamenti adeguati. Il risultato è una perdita significativa di anni di vita in salute e un costo molto elevato per l’economia mondiale. MConlus affronta anche questo problema tramite le sue missioni in Costa d’Avorio, Messico e Kenya. Da Missioni Consolata di maggio – web classico ∆∆∆ PDF sfogliabile ◊◊◊
Secondo i dati elaborati Our world in data, il portale di divulgazione scientifica sviluppato dall’università di Oxford, nel 2019 erano 792 milioni le persone che convivevano con un disturbo di salute mentale. Il più comune era l’ansia, che toccava 284 milioni di persone, seguito dalla depressione per 264 milioni; 46 milioni di individui presentavano disturbi dello spettro bipolare, 20 milioni erano affetti da schizofrenia o altre psicosi e 16 milioni avevano disordini alimentari. A questi si aggiungevano poi 107 milioni di persone con disturbi derivanti dall’uso di alcol e 71 milioni dall’uso di droghe, per un totale di poco meno di un miliardo di persone.
I dati, chiarisce il portale, vengono dall’Institute for health metrics and evaluation (Ihme) dell’Università di Washington, a Seattle (Usa), il cui studio Global burden of disease (Gbd) ha indagato gli effetti di 290 malattie e 67 fattori di rischio nel mondo. Il Gbd è uno dei principali punti di riferimento per gli studi sulla salute mentale, ampiamente citato e utilizzato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Tuttavia, gli stessi ricercatori che lo hanno realizzato segnalano che su questo tema i dati sono spesso lacunosi e raccolti in modo disomogeneo, specialmente quando riguardano i paesi a medio e basso reddito. Di conseguenza, in particolar modo in quei paesi, l’ampiezza del fenomeno è probabilmente sottostimata.
La pandemia da Covid-19, calcola inoltre l’Ihme, ha indotto un aumento dei casi di ansia (+76,2 milioni) e depressione grave (+53,2 milioni), colpendo in modo particolare le donne e i più giovani.
Anni di vita persi e risorse insufficienti
Le persone con problemi di salute mentale gravi, sottolinea l’Oms sulla sua pagina dedicata alla salute mentale, muoiono prematuramente – anche con vent’anni di anticipo – a causa di malattie prevenibili e la depressione è una delle principali cause di disabilità.
L’aspetto della disabilità e degli anni vissuti in meno, precisa Our world in data, è molto importante, perché permette di cogliere l’impatto che questi disturbi hanno sulla salute in modo più dettagliato di quanto non sia possibile fare limitandosi solo ai decessi. In particolare, permette di cogliere il cosiddetto «carico di malattia» (disease burden) misurato in anni di vita corretta per disabilità (Daly, o Disability-adjusted life year), cioè la somma del numero di anni persi a causa di malattia o disabilità più quelli persi per morte prematura.
Utilizzando questo indicatore, i disturbi legati alla salute mentale rappresentano il 5% del carico globale di malattia e sono responsabili del 14% degli anni vissuti con malattia o disabilità.
I problemi di salute mentale non risparmiano gli adolescenti: uno su cinque soffre di questi disturbi e il suicidio è la seconda causa di morte fra le persone fra i 15 e i 29 anni. Anche nelle situazioni post-conflitto la proporzione di persone con un problema di salute mentale è di una ogni cinque. Il costo per l’economia mondiale dei due disturbi più diffusi, l’ansia e la depressione, è quantificato in circa mille miliardi di dollari l’anno@.
Nonostante questi dati, la spesa media per la salute mentale è di circa il 2% al livello globale e anche nell’aiuto pubblico allo sviluppo la quota destinata ad affrontare questo tema non va oltre l’1% dell’aiuto destinato al settore sanitario (che a sua volta è una frazione di quello totale). Tre quarti delle persone affette da uno di questi disturbi non ricevono alcun trattamento e, anzi, si trovano spesso a vivere in contesti in cui pregiudizio, violazioni dei diritti umani, stigmatizzazione e leggi del tutto inadeguate rendono ancora più difficile la loro situazione.
La salute mentale e lo stigma
Diversi reportage negli ultimi anni hanno descritto le condizioni in cui sono spesso costrette a vivere le persone affette da questi disturbi nei paesi a basso reddito: la pratica di incatenare i malati e di confinarli in luoghi come i prayer camps, i campi di preghiera, è una violazione dei diritti umani e peggiora la loro condizione. Anche questa rivista ha raccontato nel 2018 uno degli sforzi di fornire un’assistenza adeguata alle persone con disagio mentale e diffondere la conoscenza del problema in alcuni paesi dell’Africa Occidentale (vedi MC 8-9/2018, Disagio mentale, incontro con Grégoire Ahongbonon).
Priorità: salute mentale
Oggi, nel centro di salute Joseph Allamano di Dianra, in Costa d’Avorio, i missionari della Consolata hanno avviato un servizio di assistenza per le persone con disturbi di salute mentale che il responsabile, padre Matteo Pettinari, progetta di far diventare un giorno un vero e proprio centro diurno.
Uno dei vantaggi di un servizio come questo è poter distinguere fra disturbi di salute mentale, malattie neurologiche e patologie che non hanno nulla a che fare con le due condizioni precedenti. Operare questa distinzione è particolarmente importante nel caso di un disturbo cronico del cervello come l’epilessia, la cui comprensione in paesi come quelli africani è tuttora inficiata da superstizioni e stigmatizzazione.
Padre Matteo riporta il caso di un giovane preso in carico dal centro di salute di Dianra: «Étienne ha l’epilessia, ma purtroppo qui non è stata subito riconosciuta come tale e, anzi, è stata interpretata come un problema di interferenza con il mondo degli spiriti e altre letture di questo genere, che affondano le proprie radici nella tradizione culturale e nella cosmovisione del popolo senoufo. Per questo la famiglia lo ha progressivamente ritirato dalla scuola e portato da diversi guaritori, che sono intervenuti sulla dieta togliendo la carne o i legumi, senza ovviamente ottenere miglioramenti. Il nostro centro di salute è riuscito a intercettare il suo bisogno di assistenza e inserirlo in un programma che prevede il trattamento farmacologico. Ora Étienne riesce a gestire il piccolo punto ristoro del centro sanitario e ad avere una vita comparabile con quella di persone non affette da questa malattia, ricavando anche un reddito che lo rende economicamente indipendente. Inoltre, adesso ha un contesto di relazioni che lo sostengono, liberandolo dall’isolamento al quale sono spesso condannate le persone nella sua situazione».
La salute mentale e il conflitto
Lo scorso 29 marzo padre Ramón Lázaro Esnaola condivideva via Telegram dal Messico una notizia apparsa in un articolo sul sito di una radio di Guadalajara: nei primi tre mesi del 2022, nello stato di Jalisco c’è stato un solo giorno senza omicidi, il 23 marzo. Le statistiche del governo federale, continuava l’articolo, rivelano che dal 1° gennaio al 27 marzo c’erano stati 364 omicidi dolosi, 4,23 al giorno in media. In Italia, nello stesso periodo gli omicidi sono stati 67.
Secondo un’indagine dell’Istituto nazionale di statistica del Messico (Inegi) effettuata su un campione di 27mila abitazioni, il 39,6% degli intervistati di 18 o più anni dichiara di aver sentito spari frequenti di arma da fuoco nei pressi della propria abitazione nell’ultimo trimestre del 2021.
Alla tensione e violenza generalizzata si aggiunge poi la violenza domestica: sempre l’istituto nazionale di statistica riporta in uno studio del 2016 realizzato su oltre 142mila case che una donna su quattro di età superiore ai 15 anni aveva subito una forma di violenza – fisica, emotiva, sessuale – da parte del partner negli ultimi 12 mesi (il dato saliva al 43% considerando tutta la vita); oltre una su cinque riportava che le violenze avevano avuto luogo nell’ambiente di lavoro, il 17,4% in ambito scolastico e il 10% in ambito familiare escludendo il compagno, quindi da parte di fratelli, sorelle, padri, madri, patrigni, matrigne e altri parenti.
In un contesto come questo, gli interventi che i missionari della Consolata stanno mettendo in atto cercano di fornire alle persone alcuni strumenti che permettano loro di affrontare le situazioni di violenza e i lutti. In particolare, riporta padre Ramón nella relazione sul progetto finanziato dagli Amici di Missioni Consolata con la raccolta fondi del 2020@, nei laboratori proposti nel corso del progetto si è lavorato sull’identificare «situazioni che generano squilibri emotivi, modelli, convinzioni che hanno causato la perdita di autostima», incoraggiando la conoscenza di sé e lo sforzo di basare il proprio processo decisionale su motivazioni razionali e non impulsive, mentre i laboratori più specifici sulla perdita e sul lutto sono previsti entro la fine di quest’anno.
Quanto alla risposta delle autorità sanitarie pubbliche, riferisce sempre dal Messico padre Alex Conti, il Sistema nazionale per lo sviluppo integrale delle famiglie «è presente in ogni comune e fornisce assistenza psicologica a costi accettabili, anche se non pubblicizza molto il servizio. Un servizio di assistenza psicologica è presente anche in molte parrocchie».
Dal 2018 vi è poi una legge, la Nom 035, per la «prevenzione dei fattori di rischio psicosociale, ovvero quegli elementi in un ambiente di lavoro che possono rappresentare un rischio per la salute mentale delle persone, come orari lunghi, sovraccarico di lavoro, leadership negativa e mancanza di controllo sul lavoro, tra gli altri. Questo regolamento è obbligatorio per tutti i luoghi di lavoro», ma secondo il quotidiano El Economista solo un terzo delle imprese ha applicato la legge in tutti i suoi aspetti.
«Gli psicologi professionisti privati forniscono assistenza a costi variabili che vanno dai 300 pesos (circa 13,54 euro) in periferia e dagli 800 ai 1.200 (36-54 euro) in città per le persone dei ceti più ricchi. Uno dei problemi è che gli assistiti spesso non hanno costanza e, nel caso di quelli meno abbienti, danno priorità ad altre spese».
La cittadella psichiatrica a Nairobi
Lo scorso novembre il quotidiano Avvenire riportava la notizia della firma di un memorandum d’intesa fra il governo keniano del presidente Uhuru Kenyatta e Gksd, «una partecipata del Gruppo San Donato che gestisce in Italia 17 ospedali privati in convenzione col Servizio sanitario nazionale, tra cui eccellenze come il San Raffaele di Milano». L’intesa dovrebbe portare alla costruzione, su una superficie di 80 ettari, di un complesso per la salute mentale, il Mathari Mental Hub, in grado di ospitare fino 600 pazienti assistiti da 1.100 membri dello staff fra medici e tecnici. Si tratterebbe di un «polo d’eccellenza di salute mentale – pubblica e gratuita – non solo per il Kenya, ma per tutta l’Africa Centrale».
Anche solo dalla città di Nairobi non mancherebbero gli utenti: una ricerca sulle sex workers di Nairobi, disponibile sul sito della Cambridge University Press, ha riportato che su 1.039 persone, di età media pari a 33,7 anni, che hanno preso parte allo studio, circa una su quattro soffriva di depressione moderata/grave, una su dieci d’ansia moderata o grave, il 14% di disturbo da stress post traumatico e il 10,2% segnalava un comportamento suicidario recente: un tentativo di suicidio nel 2,6% dei casi e ideazione suicidaria nel 10%. Tra le donne con disturbi di salute mentale, circa due su tre hanno avuto anche un problema da abuso di alcol o droghe.